Il cinque maggio è un'ode scritta da Alessandro Manzoni nel 1821, in occasione della morte di Napoleone Bonaparte in esilio sull'isola di Sant'Elena.
Nell'opera, scritta di getto in tre giorni dopo aver appreso dalla «Gazzetta di Milano» del 16 luglio 1821 le circostanze della morte di Napoleone, lo scrittore mette in risalto le battaglie e le imprese dell'ex imperatore nonché la fragilità umana e la misericordia di Dio.
Quando Napoleone morì (5 maggio 1821) la notizia in Europa si divulgò solo dopo qualche mese e si seppe anche che durante l'esilio Napoleone aveva ricevuto i sacramenti cristiani. Manzoni fu molto colpito da questo particolare e nel suo cantico non vede Napoleone come il "grande stratega", il "genio della guerra" ma vede tutta la cosa sotto l'aspetto spirituale, Manzoni immagina come doveva soffrire Napoleone rinchiuso su un'isoletta dispersa e immagina anche come la Fede e Dio abbiano avuto compassione nei confronti di Napoleone.
Da notare come con la suddetta opera, che è stata scritta dopo la morte di Napoleone, in modo che Manzoni non potesse riceverne nessun vantaggio (infatti il Manzoni non nutriva tanta simpatia per il dittatore e al contrario di molti letterati suoi contemporanei, non stese mai un'ode nei suoi confronti quando era ancora in vita), il poeta ha esplicitamente fatto intendere di non voler né denigrare né celebrare il personaggio storico, ma ha rimandato questo giudizio ai posteri (con una frase che diverrà celebre e rimarrà nell'uso comune della lingua italiana: "Fu vera Gloria? Ai posteri l'ardua sentenza", vv 31-32), i quali con maggiore distacco potranno valutare meglio dei contemporanei, coinvolti nelle passioni dell'epoca. Manzoni rende esplicita la sua posizione neutrale e non servile nei confronti di Napoleone nei vv. 13-22 ("'Lui folgorante in solio vide il mio genio e tacque'", "vergin di servo encomio e di codardo oltraggio"), rivendicando inoltre la sua onestà nel non averlo elogiato nemmeno quando era al massimo del suo splendore, a differenza di altri contemporanei ("(il mio genio) di mille voci al sònito mista la sua non ha").
A dispetto della premessa dei primi versi (in cui l'autore dice di non avere mai preso posizioni favorevoli o contrarie al tiranno e di non volerlo fare in occasione della morte) Manzoni durante tutta l'opera tesse un elogio a Napoleone che culmina negli ultimi versi: "ché più superba altezza / al disonor del Gòlgota / giammai non si chinò..." (vv 100 e seg.). Anche Manzoni quindi, noto per la sua fede e militanza cattolica, si affianca ad altri contemporanei nell'apprezzare la figura di Napoleone, che era da alcuni contemporanei considerato un tiranno sanguinario e saccheggiatore. Infatti, se prendiamo in esame il verso 96 della sedicesima strofa, notiamo: "La gloria che passò.". Da questo punto di vista, sembra essere lo stesso Manzoni a rispondere alla fittizia domanda retorica posta da lui stesso al verso 31 ("Fu vera Gloria?"): la "vera gloria" è passata, ma, senza dubbio, c'è stata. Conclusione manzoniana, quindi: "fu" veramente "vera gloria".
1. Il Manzoni non ha mai amato la dittatura di Napoleone, però considerava giuste le idee della Rivoluzione francese, che Napoleone voleva imporre con la forza a tutta Europa.
2. Il Manzoni qui non giudica Napoleone col metro morale, non si chiede cioè se il suo operato fu "vera gloria", in quanto lascia la sentenza ai posteri. Dice soltanto che anche in Napoleone, Dio ha compiuto i suoi disegni in modo misterioso, senza che neppure Napoleone se ne rendesse conto.
L'ode è stata scritta da Manzoni in soli tre giorni (17-19 luglio 1821) subito dopo la notizia della morte di Napoleone, giunta a Milano il 16 luglio, che doveva provocare nel Poeta una notevole impressione che creò quello sgomento che sempre coglie gli uomini quando muoiono i Grandi che sembrano indistruttibili, una certa commozione che nel Manzoni si traduce nella meditazione sulla vita e sulla morte, sulla fragile transitorietà delle glorie umane e terrene, sulla dolorosità della solitudine, acuita dal ricordo delle grandezze passate e dall'ansietà di un desiderio, talvolta potente, di un aiuto che non arriva (Napoleone che scruta l'orizzonte lontano sul mare), e infine la pacificazione nella Benefica Fede, con una preghiera "a speredere ogni ria parola" superando la condizione umana contingente nell'attesa di raggiungere il premio / che i desideri avanza. Possiamo dividere l'ode manzoniana, composta da 18 sestine per complessivi versi 108, in due distinte parti simmetriche, comprendenti ciascuna 9 sestine: o la prima fino al verso 54, dominata dalla presenza dell'uomo di fronte a se stesso, alla sua storia terrena, alla sua gloria umana, al premio / ch'e follia sperar; domina Napoleone e la sua storia, per il quale Manzoni non si era prodigato in elogi negli anni in cui dominò l'Europa, e non aveva neanche pensato un codardo oltraggio quando il destino dell'uomo era ormai segnato solo dalla sconfitta; di fronte alla morte di Napoleone il Poeta e la terra tutta restano muti nella meraviglia un po' dolorosa di una morte "incredibile". o la seconda dal v. 55 alla fine, dominata dall'incontro tra l'uomo e Dio, la benefica / Fede ai trionfi avvezza, che sola può dare quel premio / che i desideri avanza, / dov'è silenzio e tenebre / la gloria che passò. I verbi al passato remoto in questa seconda parte sono soltanto sei, le tre coppie sparve/chiuse, imprese/stette, ripensò/disperò ed esprimono una escalation verso una condizione di disperazione e di solitudine assoluta che può essere risolta solo attraverso l'intervento di una Forza esterna all'uomo. Per questo, finita l'escalation verso la disperazione, si impone una presenza diversa.
Entrambe cominciano con la realtà presente della morte di Napoleone (Ei fu al v. 1, E sparve al v. 55), di un Napoleone che è solo uno dei due centri costitutivi dell'ode (l'altro è Dio). Ciò che colpisce l'immaginazione e la spiritualità del Manzoni non è la figura di Napoleone, dominatore degli eventi a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento, o la storia dei fatti o delle idee di quegli anni, quanto il silenzio e la solitudine vissuti nell'isola di Sant'Elena, e la possibilità di un profondo pentimento maturato nella meditazione sulla sua vita passato e di un affidamento alla pietà di Dio all'avvicinarsi della fine dei propri giorni.
E quegli ultimi attimi sono fusi nell'ansietà di un naufrago, oppresso dalla solitudine e dal peso delle memorie e delle immagini che si affollano nella memoria; e da quel naufragio lo salverà solo la benefica Fede nel Dio che atterra e suscita / che affanna e che consola.
O anke:
Commento
L`ode esprime l`intensa commozione che l`improvvisa morte di Napoleone Bonaparte suscitò nel poeta e in tutti gli europei. Napoleone muore nell'isola di Sant'Elena,d ove si trova in esilio, il 5 maggio 1821, ma la notizia raggiunge Milano solo il 16 luglio e colpisce profondamente Manzoni che in soli tre giorni, dal 17 al 19 luglio, compone l`ode. La poesia non e` una celebrazione della figura del grande imperatore,per cui il poeta non ebbe mai simpatia,ma una riflessione morale e religiosa sul mistero della morte. La rievocazione storica fa da sfondo al dramma di un uomo che,dopo aver deciso i destini dell`Europa, si trova alla fine solo di fronte alla morte. Anche in quest`opera e` evidente il richiamo alla Provvidenza,che sola piu dare un senso a tutte le imprese umane e che quindi giustifica la presenza di Napoleone nel mondo.
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Il cinque maggio è un'ode scritta da Alessandro Manzoni nel 1821, in occasione della morte di Napoleone Bonaparte in esilio sull'isola di Sant'Elena.
Nell'opera, scritta di getto in tre giorni dopo aver appreso dalla «Gazzetta di Milano» del 16 luglio 1821 le circostanze della morte di Napoleone, lo scrittore mette in risalto le battaglie e le imprese dell'ex imperatore nonché la fragilità umana e la misericordia di Dio.
Quando Napoleone morì (5 maggio 1821) la notizia in Europa si divulgò solo dopo qualche mese e si seppe anche che durante l'esilio Napoleone aveva ricevuto i sacramenti cristiani. Manzoni fu molto colpito da questo particolare e nel suo cantico non vede Napoleone come il "grande stratega", il "genio della guerra" ma vede tutta la cosa sotto l'aspetto spirituale, Manzoni immagina come doveva soffrire Napoleone rinchiuso su un'isoletta dispersa e immagina anche come la Fede e Dio abbiano avuto compassione nei confronti di Napoleone.
Da notare come con la suddetta opera, che è stata scritta dopo la morte di Napoleone, in modo che Manzoni non potesse riceverne nessun vantaggio (infatti il Manzoni non nutriva tanta simpatia per il dittatore e al contrario di molti letterati suoi contemporanei, non stese mai un'ode nei suoi confronti quando era ancora in vita), il poeta ha esplicitamente fatto intendere di non voler né denigrare né celebrare il personaggio storico, ma ha rimandato questo giudizio ai posteri (con una frase che diverrà celebre e rimarrà nell'uso comune della lingua italiana: "Fu vera Gloria? Ai posteri l'ardua sentenza", vv 31-32), i quali con maggiore distacco potranno valutare meglio dei contemporanei, coinvolti nelle passioni dell'epoca. Manzoni rende esplicita la sua posizione neutrale e non servile nei confronti di Napoleone nei vv. 13-22 ("'Lui folgorante in solio vide il mio genio e tacque'", "vergin di servo encomio e di codardo oltraggio"), rivendicando inoltre la sua onestà nel non averlo elogiato nemmeno quando era al massimo del suo splendore, a differenza di altri contemporanei ("(il mio genio) di mille voci al sònito mista la sua non ha").
A dispetto della premessa dei primi versi (in cui l'autore dice di non avere mai preso posizioni favorevoli o contrarie al tiranno e di non volerlo fare in occasione della morte) Manzoni durante tutta l'opera tesse un elogio a Napoleone che culmina negli ultimi versi: "ché più superba altezza / al disonor del Gòlgota / giammai non si chinò..." (vv 100 e seg.). Anche Manzoni quindi, noto per la sua fede e militanza cattolica, si affianca ad altri contemporanei nell'apprezzare la figura di Napoleone, che era da alcuni contemporanei considerato un tiranno sanguinario e saccheggiatore. Infatti, se prendiamo in esame il verso 96 della sedicesima strofa, notiamo: "La gloria che passò.". Da questo punto di vista, sembra essere lo stesso Manzoni a rispondere alla fittizia domanda retorica posta da lui stesso al verso 31 ("Fu vera Gloria?"): la "vera gloria" è passata, ma, senza dubbio, c'è stata. Conclusione manzoniana, quindi: "fu" veramente "vera gloria".
1. Il Manzoni non ha mai amato la dittatura di Napoleone, però considerava giuste le idee della Rivoluzione francese, che Napoleone voleva imporre con la forza a tutta Europa.
2. Il Manzoni qui non giudica Napoleone col metro morale, non si chiede cioè se il suo operato fu "vera gloria", in quanto lascia la sentenza ai posteri. Dice soltanto che anche in Napoleone, Dio ha compiuto i suoi disegni in modo misterioso, senza che neppure Napoleone se ne rendesse conto.
L'ode è stata scritta da Manzoni in soli tre giorni (17-19 luglio 1821) subito dopo la notizia della morte di Napoleone, giunta a Milano il 16 luglio, che doveva provocare nel Poeta una notevole impressione che creò quello sgomento che sempre coglie gli uomini quando muoiono i Grandi che sembrano indistruttibili, una certa commozione che nel Manzoni si traduce nella meditazione sulla vita e sulla morte, sulla fragile transitorietà delle glorie umane e terrene, sulla dolorosità della solitudine, acuita dal ricordo delle grandezze passate e dall'ansietà di un desiderio, talvolta potente, di un aiuto che non arriva (Napoleone che scruta l'orizzonte lontano sul mare), e infine la pacificazione nella Benefica Fede, con una preghiera "a speredere ogni ria parola" superando la condizione umana contingente nell'attesa di raggiungere il premio / che i desideri avanza. Possiamo dividere l'ode manzoniana, composta da 18 sestine per complessivi versi 108, in due distinte parti simmetriche, comprendenti ciascuna 9 sestine: o la prima fino al verso 54, dominata dalla presenza dell'uomo di fronte a se stesso, alla sua storia terrena, alla sua gloria umana, al premio / ch'e follia sperar; domina Napoleone e la sua storia, per il quale Manzoni non si era prodigato in elogi negli anni in cui dominò l'Europa, e non aveva neanche pensato un codardo oltraggio quando il destino dell'uomo era ormai segnato solo dalla sconfitta; di fronte alla morte di Napoleone il Poeta e la terra tutta restano muti nella meraviglia un po' dolorosa di una morte "incredibile". o la seconda dal v. 55 alla fine, dominata dall'incontro tra l'uomo e Dio, la benefica / Fede ai trionfi avvezza, che sola può dare quel premio / che i desideri avanza, / dov'è silenzio e tenebre / la gloria che passò. I verbi al passato remoto in questa seconda parte sono soltanto sei, le tre coppie sparve/chiuse, imprese/stette, ripensò/disperò ed esprimono una escalation verso una condizione di disperazione e di solitudine assoluta che può essere risolta solo attraverso l'intervento di una Forza esterna all'uomo. Per questo, finita l'escalation verso la disperazione, si impone una presenza diversa.
Entrambe cominciano con la realtà presente della morte di Napoleone (Ei fu al v. 1, E sparve al v. 55), di un Napoleone che è solo uno dei due centri costitutivi dell'ode (l'altro è Dio). Ciò che colpisce l'immaginazione e la spiritualità del Manzoni non è la figura di Napoleone, dominatore degli eventi a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento, o la storia dei fatti o delle idee di quegli anni, quanto il silenzio e la solitudine vissuti nell'isola di Sant'Elena, e la possibilità di un profondo pentimento maturato nella meditazione sulla sua vita passato e di un affidamento alla pietà di Dio all'avvicinarsi della fine dei propri giorni.
Il poeta rimane muto ripensando agli ultimi attimi della vita di un uomo che il Fato aveva voluto arbitro della storia e di tanti destini umani, di un uomo che si era posto lui stesso come Fato/arbitro dei destini dei popoli e che racchiuse in sé le aspettative di un'epoca; e allora non può che ripensare a quando potrà esistere nuovamente un uomo altrettanto decisivi per i destini umani, che, calpestando la sanguinosa polvere del mondo e della vita, lascerà nella storia un'orma altrettanto grande.
E quegli ultimi attimi sono fusi nell'ansietà di un naufrago, oppresso dalla solitudine e dal peso delle memorie e delle immagini che si affollano nella memoria; e da quel naufragio lo salverà solo la benefica Fede nel Dio che atterra e suscita / che affanna e che consola.
O anke:
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L`ode esprime l`intensa commozione che l`improvvisa morte di Napoleone Bonaparte suscitò nel poeta e in tutti gli europei. Napoleone muore nell'isola di Sant'Elena,d ove si trova in esilio, il 5 maggio 1821, ma la notizia raggiunge Milano solo il 16 luglio e colpisce profondamente Manzoni che in soli tre giorni, dal 17 al 19 luglio, compone l`ode. La poesia non e` una celebrazione della figura del grande imperatore,per cui il poeta non ebbe mai simpatia,ma una riflessione morale e religiosa sul mistero della morte. La rievocazione storica fa da sfondo al dramma di un uomo che,dopo aver deciso i destini dell`Europa, si trova alla fine solo di fronte alla morte. Anche in quest`opera e` evidente il richiamo alla Provvidenza,che sola piu dare un senso a tutte le imprese umane e che quindi giustifica la presenza di Napoleone nel mondo.