Quella di Amore e Imene è una favola eziologica contenuta nel "Giorno" di Giuseppe Parini. Attraverso questa favola il Parini parla del fatto che nel Settecento (epoca in cui scrive e in cui vive l'ipotetico Giovin Signore) c'era una differenza tra amore e matrimonio. La situazione dei personaggi del "Giorno" è la rappresentazione perfetta di questa usanza. La dama di cui il Giovin Signore è cicisbeo è sposata, ma si intrattiene durante il giorno con lui. Il marito di lei acconsente ma è geloso (il poeta lo paragona ad Argo). Questo perchè i matrimoni settecenteschi prevedevano per contratto che la donna svolgesse il suo "dovere coniugale" di notte, ma che di giorno potesse fare ciò che vuole. Lei e il Giovin Signore col gioco del tric trac cercano di emettere più rumore possibile in modo da allontanare così il geloso marito e trascorrere il loro tempo insieme.
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Ecco il link per scaricare l'opera "Il Giorno" di Parini.
La favola si trova ai versi da 258 a 351.
http://www.logoslibrary.eu/pls/wordtc/new_wordtheq...
Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo celeste, o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori
E le adunate in terra o in mar ricchezze
Dal genitor frugale in pochi lustri,
Me Precettor d'amabil Rito ascolta.
Come ingannar questi nojosi e lenti
Giorni di vita, cui sì lungo tedio
E fastidio insoffribile accompagna
Or io t'insegnerò. Quali al Mattino,
Quai dopo il Mezzodì, quali la Sera
Esser debban tue cure apprenderai,
Se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta
Pur di tender gli orecchi a' versi miei.
Già l'are a Vener sacre e al giocatore
Mercurio ne le Gallie e in Albione
Devotamente hai visitate, e porti
Pur anco i segni del tuo zelo impressi:
Ora è tempo di posa. In vano Marte
A sè t'invita; che ben folle è quegli
Che a rischio de la vita onor si merca,
E tu naturalmente il sangue aborri.
Nè i mesti de la Dea Pallade studj
Ti son meno odiosi: avverso ad essi
Ti feron troppo i queruli ricinti
Ove l'arti migliori, e le scienze
Cangiate in mostri, e in vane orride larve,
Fan le capaci volte echeggiar sempre
Di giovanili strida. Or primamente
Odi quali il Mattino a te soavi
Cure debba guidar con facil mano.
Sorge il Mattino in compagnìa dell'Alba
Innanzi al Sol che di poi grande appare
Su l'estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e l'onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel sposa, e i minori
Suoi figlioletti intepidìr la notte;
Poi sul collo recando i sacri arnesi
Che prima ritrovà r Cerere, e Pale,
Va col bue lento innanzi al campo, e scuote
Lungo il picciol sentier da' curvi rami
Il rugiadoso umor che, quasi gemma,
I nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il Fabbro, e la sonante
Officina riapre, e all'opre torna
L'altro dì non perfette, o se di chiave
Ardua e ferrati ingegni all'inquieto
Ricco l'arche assecura, o se d'argento
E d'oro incider vuol giojelli e vasi
Per ornamento a nuove spose o a mense.
Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
Qual istrice pungente, irti i capegli
Al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
Sol non sedesti a parca mensa, e al lume
Dell'incerto crepuscolo non gisti
Jeri a corcarti in male agiate piume,
Come dannato è a far l'umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi concilio
Di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr'arti e leggi
Per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie, e le canore scene,
E il patetico gioco oltre più assai
Producesti la notte; e stanco alfine
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote, e il calpestìo
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il queto aere notturno, e le tenèbre
Con fiaccole superbe intorno apristi,
Siccome allor che il Siculo terreno
Dall'uno all'altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
Le tede de le Furie anguicrinite.
Così tornasti a la magion; ma quivi
A novi studj ti attendea la mensa
Cui ricoprien pruriginosi cibi
E licor lieti di Francesi colli,
O d'Ispani, o di Toschi, o l'Ongarese
Bottiglia a cui di verde edera Bacco
Concedette corona; e disse: siedi
De le mense reina. Alfine il Sonno
Ti sprimacciò le morbide coltrici
Di propria mano, ove, te accolto, il fido
Servo calò le seriche cortine:
E a te soavemente i lumi chiuse
Il gallo che li suole aprire altrui.
Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi
Non sciolga da' papaveri tenaci
Mòrfeo prima, che già grande il giorno
Tenti di penetrar fra gli spiragli
De le dorate imposte, e la parete
Pingano a stento in alcun lato i raggi
Del Sol ch'eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
Denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
Sciorre il mio legno, e co' precetti miei
Te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Già i valetti gentili udìr lo squillo
Del vicino metal cui da lontano
Scosse tua man col propagato moto;
E accorser pronti a spalancar gli opposti
Schermi a la luce, e rigidi osservà ro,
Che con tua pena non osasse Febo
Entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e sì ti appoggia
Alli origlieri i quai lenti gradando
All'omero ti fan molle sostegno.
Poi coll'indice destro, lieve lieve
Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
Quel che riman de la Cimmeria nebbia;
E de' labbri formando un picciol arco,
Dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
O, se te in sì gentile atto mirasse
Il duro Capitan qualor tra l'armi,
Sgangherando le labbra, innalza un grido
Lacerator di ben costrutti orecchi,
Onde a le squadre varj moti impone;
Se te mirasse allor, certo vergogna
Avria di sè più che Minerva il giorno
Che, di flauto sonando, al fonte scorse
Il turpe aspetto de le guance enfiate.
Ma già il ben pettinato entrar di novo
Tuo damigello i' veggo; egli a te chiede
Quale oggi più de le bevande usate
Sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
Indiche merci son tazze e bevande;
Scegli qual più desii. S'oggi ti giova
Porger dolci allo stomaco fomenti,
Sì che con legge il natural calore
V'arda temprato, e al digerir ti vaglia,
Scegli 'l brun cioccolatte, onde tributo
Ti dà il Guatimalese e il Caribbèo
C'ha di barbare penne avvolto il crine:
Ma se nojosa ipocondrìa t'opprime,
O troppo intorno a le vezzose membra
Adipe cresce, de' tuoi labbri onora
La nettarea bevanda ove abbronzato
Fuma, ed arde il legume a te d'Aleppo
Giunto, e da Moca che di mille navi
Popolata mai sempre insuperbisce.
Certo fu d'uopo, che dal prisco seggio
Uscisse un Regno, e con ardite vele
Fra straniere procelle e novi mostri
E teme e rischi ed inumane fami
Superasse i confin, per lunga etade
Inviolati ancora: e ben fu dritto
Se Cortes, e Pizzarro umano sangue
Non istimà r quel ch'oltre l'Oceà no
Scorrea le umane membra, onde tonando
E fulminando, alfin spietatamente
Balzaron giù da' loro aviti troni
Re Messicani e generosi Incassi,
Poichè nuove così venner delizie,
O gemma degli eroi, al tuo palato.
Cessi 'l Cielo però, che in quel momento
Che la scelta bevanda a sorbir prendi,
Servo indiscreto a te improvviso annunzj
Il villano sartor che, non ben pago
D'aver teco diviso i ricchi drappi,
Oso sia ancor con pòlizza infinita
A te chieder mercede: ahimè, che fatto
Quel salutar licore agro e indigesto
Tra le viscere tue, te allor farebbe
E in casa e fuori e nel teatro e al corso
Ruttar plebejamente il giorno intero!
Ma non attenda già ch'altri lo annunzj
Gradito ognor, benchè improvviso, il dolce
Mastro che i piedi tuoi come a lui pare
Guida, e corregge. Egli all'entrar si fermi
Ritto sul limitare, indi elevando
Ambe le spalle, qual testudo il collo
Contragga alquanto; e ad un medesmo tempo
Inchini 'l mento, e con l'estrema falda
Del piumato cappello il labbro tocchi.
Non meno di costui facile al letto
Del mio Signor t'accosta, o tu che addestri
A modular con la flessibil voce
Teneri canti, e tu che mostri altrui
Come vibrar con maestrevol arco
Sul cavo legno armoniose fila.
Nè la squisita a terminar corona
D'intorno al letto tuo manchi, o Signore,
Il Precettor del tenero idioma
Che da la Senna de le Grazie madre
Or ora a sparger di celeste ambrosia
Venne all'Italia nauseata i labbri.
All'apparir di lui l'itale voci
Tronche cedano il campo al lor tiranno;
E a la nova ineffabile armonìa
De' soprumani accenti, odio ti nasca
Più grande in sen contro alle impure labbra
Ch'osan macchiarsi ancor di quel sermone
Onde in Valchiusa fu lodata e pianta
Già la bella Francese, et onde i campi
All'orecchio dei Re cantati furo
Lungo il fonte gentil de le bell'acque.
Misere labbra che temprar non sanno
Con le Galliche grazie il sermon nostro,
Sì che men aspro a' dilicati spirti,
E men barbaro suon fieda gli orecchi!
Or te questa, o Signor, leggiadra schiera
Trattenga al novo giorno; e di tue voglie
Irresolute ancora or l'uno, or l'altro
Con piacevoli detti il vano occùpi,
Mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi
Dell'ardente bevanda a qual cantore
Nel vicin verno si darà la palma
Sopra le scene; e s'egli è il ver, che rieda
L'astuta Frine che ben cento folli
Milordi rimandò nudi al Tamigi;
O se il brillante danzator Narcisso
Tornerà pure ad agghiacciare i petti
De' palpitanti Italici mariti.
Poichè così gran pezzo a' primi albori
Del tuo mattin teco scherzato fia
Non senz'aver licenziato prima
L'ipocrita pudore, e quella schifa,
Cui le accigliate gelide matrone
Chiaman modestia, alfine o a lor talento,
O da te congedati escan costoro.
Doman si potrà poscia, o forse l'altro
Giorno a' precetti lor porgere orecchio,
Se meno ch'oggi a te cure dintorno
Porranno assedio. A voi divina schiatta,
Vie più che a noi mortali il ciel concesse
Domabile midollo entro al cerèbro,
Sì che breve lavor basta a stamparvi
Novelle idee. In oltre a voi fu dato
Tal de' sensi e de' nervi e degli spirti
Moto e struttura, che ad un tempo mille
Penetrar puote, e concepir vostr'alma
Cose diverse, e non però turbarle
O confonder giammai, ma scevre e chiare
Ne' loro alberghi ricovrarle in mente.
Il vulgo intanto a cui non dessi il velo
Aprir de' venerabili misterj,
Fie pago assai, poi che vedrà sovente
Ire e tornar dal tuo palagio i primi
D'arte maestri, e con aperte fauci
Stupefatto berà le tue sentenze.
Ma già vegg'io, che le oziose lane
Soffrir non puoi più lungamente, e in vano
Te l'ignavo tepor lusinga e molce,
Però che or te più gloriosi affanni
Aspettan l'ore a trapassar del giorno.
Su dunque o voi del primo ordine servi
Che degli alti Signor ministri al fianco
Siete incontaminati, or dunque voi
Al mio divino Achille, al mio Rinaldo
L'
Quella di Amore e Imene è una favola eziologica contenuta nel "Giorno" di Giuseppe Parini. Attraverso questa favola il Parini parla del fatto che nel Settecento (epoca in cui scrive e in cui vive l'ipotetico Giovin Signore) c'era una differenza tra amore e matrimonio. La situazione dei personaggi del "Giorno" è la rappresentazione perfetta di questa usanza. La dama di cui il Giovin Signore è cicisbeo è sposata, ma si intrattiene durante il giorno con lui. Il marito di lei acconsente ma è geloso (il poeta lo paragona ad Argo). Questo perchè i matrimoni settecenteschi prevedevano per contratto che la donna svolgesse il suo "dovere coniugale" di notte, ma che di giorno potesse fare ciò che vuole. Lei e il Giovin Signore col gioco del tric trac cercano di emettere più rumore possibile in modo da allontanare così il geloso marito e trascorrere il loro tempo insieme.